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Pubblicato: Maggio 18, 2013 in Prove

La luce del sole riflessa dalle nuvole mi infastidiva un po’. L’aereo volava già da qualche ora e il mio pensiero era  tutto per il progetto. Certo che una traversata da sei ore su un aereo che pareva non stare in piedi richiedeva una bella fiducia nel destino. Ma visitare quello Stato era l’idea che portavo avanti da mesi. Non c’erano alternative, bisognava volare per ore sospesi nel nulla, scendere in picchiata sperando che il carrello reggesse l’impatto, spostarsi su un bus maleodorante sul quale passare altre due ore e infine percorrere su un carro trainato da buoi un’altra ora di marcia. Ma se ci dovevo scrivere sopra, volevo vedere se e quanto le cose andassero realmente male. Le notizie che arrivavano a noi osservatori esterni erano contrastanti e passavano da commenti entusiastici a critiche feroci. Da qualche anno erano causa di dibattito e a volte di acceso scontro.

Tentai di contrastare il continuo ed assillante chiacchiericcio proveniente dal fondo del piccolo aereo provando a riflettere su quello che mi aspettava al mio arrivo. La prima tappa consisteva nell’atterrare in un minuscolo aeroporto, in un Paese confinante con quello meta del mio viaggio, e da lì proseguire prima in bus e poi sul carro a buoi. Sopra il carro era prevista la parte del viaggio più rischiosa, passare il confine all’interno di un fitto bosco, approfittando dell’unico punto non strettamente controllato disponibile. Una volta arrivato in città avrei preso contatto con le persone che mi avevano aiutato a mettere piede sul territorio del loro Stato. Uno scossone alla spalla destra destò la mia attenzione: era la mia guida che mi faceva notare come avessimo appena superato la metà del volo. Sospirai e chiusi gli occhi.

Mi ridestai di colpo, l’aereo aveva toccato il suolo e aver evitato di assistere alla discesa fu una piacevole sorpresa. Ero dunque a terra. Fuori l’atmosfera era strana, sapeva di sporco e di polvere. Incontrai il mio primo contatto, un omino tarchiato e duro, dallo sguardo assente. Le strade della cittadina fuori l’aeroporto erano strette e deserte nel mezzo di un pomeriggio assolato, le case si alzavano basse e generalmente trascurate, come se gli anni non avessero avuto alcun contrasto durante la loro lunga opera di rovina sulle stesse. Il grigiore generale mi avvolse e, incupito, mi avviai al seguito della mia guida, in silenzio. Attraversammo alcuni tristi, desolati e sporchi vicoli, dove le attività umane erano ridotte al minimo. La maggior parte dei negozi era stata chiusa da tempo, i gatti passeggiavano solitari sui cornicioni. Dopo qualche minuto di cammino entrammo in un minuscolo bar. Le pareti del locale erano costellate di vecchi quadri raffiguranti note marche di bibite, ognuno dei quali aveva accolto senza resistenza la copiosa polvere arrivata negli anni. Bevemmo della birra calda e fastidiosamente dolciastra che mi fece per un attimo rimpiangere di aver intrapreso il viaggio.

Quello strano ed abbandonato Paese mi fece riflettere sul comune decadimento che la nostra epoca stava attraversando, fenomeno ben rappresentato dall’architettura degli insediamenti urbani presenti in qualsiasi zona periferica avessi sin lì visitato. Provai a coinvolgere la guida nel flusso dei miei pensieri: “Mike, come si vive qui? Sembra quasi che il mondo si sia fermato”. Lui rispose con un’alzata di spalle. Non mi arresi e proseguii: “È raro che qualche persona non del posto passi di qui? Non mi pare che badiate tanto alla forma, come se attirare qualcuno non vi interessasse!”. Il mio tono fece scattare qualcosa nel barista, mentre la mia guida proseguiva nei miei confronti col suo fare distaccato. “Piacere, mi chiamo Louis” fece il barista. “Questo posto va bene così, gli stranieri sono solo di passaggio e approfittano dell’aeroporto. Qui non si ferma mai nessuno”.

Rinunciai all’intento di provare a carpire qualche informazione dai miei due interlocutori e finii la mia pessima birra. Fu nel piccolo bar che Mike mi presentò un ragazzino magro e scavato, da qual momento avrei dovuto seguire lui. Si chiamava Sam.

Di nuovo per strada, col mio nuovo compagno di viaggio momentaneo, trovammo il bus e ci salimmo. Dormii ancora durante il viaggio e al mio risveglio l’atmosfera era mutata un’altra volta. Ora ci trovavamo esattamente di fronte a quel bosco fitto che aspettavo, prima meta del mio peregrinare, senza strutture costruite dall’uomo intorno, sostanzialmente nel nulla. Salimmo sul carro a buoi e questo partì. Il viaggio si svolse in buona parte dentro il bosco, su di un sentiero stretto e polveroso che si srotolava lento, avvolto in uno spettacolo di alberi che parevano avere nel cielo la loro fine.

Interruppi il silenzio che regnava sovrano sul carro rivolgendomi al ragazzino: “Sam, fai spesso questo tipo di lavoro?” chiesi. “Signore io faccio tutto quello che mi chiedono” rispose con tono servile. Provai di nuovo: “Lo capisco, ma ti è mai capitato di fare questo viaggio ed accompagnare altre persone con il carro? Di andare verso l’altro Stato?”. Sam mi guardò interdetto e dopo qualche secondo disse: “No signore, mai. Nessuno vuole mai andare da quella parte, oltre il bosco”. Mi aspettavo una risposta del genere relativamente alla sua gente, avevo avuto modo di verificarne il distacco da tutto poche ore prima. Ma proseguii con le mie domande. “Va bene Sam, ma hai mai visto altre persone come me, venute da fuori, fare questo viaggio?”. La sua risposta fu categorica: “No signore, mai”.

Ripresi ad osservare gli alberi mentre riflettevo su quanto detto dal ragazzo. Nessuno aveva mai tentato questo viaggio? O forse l’aveva solo tentato con altre persone come riferimento? Difficile dirlo, sarebbe stato un altro tema sul quale lavorare più avanti.

All’improvviso uscimmo dal bosco e ci ritrovammo su una strada sterrata dalla quale, in lontananza, si poteva scorgere una città. La meta era vicina. Qualche chilometro più avanti incrociammo un altro carro che percorreva la strada in direzione opposta. Io mi dovetti nascondere sotto un telo e diventare parte del carico del mio carro. Salutai e ringraziai Sam, che salì sul carro che viaggiava in direzione opposta per tornare indietro.

Uscii dal mio giaciglio all’interno di un edificio dove mi diedero da mangiare e vestiti lì molto comuni, più adatti a mescolarmi agevolmente tra la folla. Ero ospite di donne e uomini che vivevano sul piccolo territorio dello Stato. Il loro sostegno per me era assolutamente indispensabile e lo pagai dando loro una discreta quantità di soldi in valuta europea. Da parte loro ottenni un po’ di soldi in valuta locale, secondo un cambio non esattamente a me favorevole. Prese la parola un ragazzo, a prima vista molto giovane, che si presentò come Joe. Capelli ricci e voluminosi, una barba folta e mal curata sul volto, occhi curiosi ma dall’inconfondibile aspetto stanco, tipici di chi non vede il proprio obiettivo come prossimo. Non aveva esattamente l’aspetto del leader. Mi presentò gli altri presenti, due ragazzi ed una ragazza. Il primo di loro era Claud, completamente calvo ma dalla folta barba. Aveva gli occhi tristi e stava un passo indietro rispetto ai suoi compagni, quasi a non voler esporsi eccessivamente, non voler prendere posizione. Charles era apparentemente più allegro, il suo aspetto risultava più curato. Una discreta somiglianza tradiva una probabile parentela tra lui e Claud. Infine era presente Roberta, una minuta ma combattiva ragazzina, con i capelli lunghissimi legati in una coda di cavallo. I suoi occhi erano quelli meno rassegnati e più combattivi di tutti, sembrava quella più convinta tra i membri del gruppo. Ripassai con loro le regole che sarebbero state alla base della mia permanenza.

“Ricorda quindi che qui devi comportarti diversamente” esordiva Joe e continuava “devi pensare di aver intorno persone burbere, che non hanno nessuna intenzione di aiutarti. Non sono solo sconosciuti per te, sono pericoli vaganti, come tu lo sei per loro”. Si riferiva alla atavica diffidenza delle persone che avrei incontrato per strada, costantemente all’erta e impaurite dalle conseguenze che i rapporti con gli altri potessero avere sulle loro vite.

“Questi soldi saranno sufficienti per un po’ di tempo, i contatti con noi dovranno essere ridotti al minimo indispensabile, dovrai essere in grado di cavartela da solo quanto più possibile” disse con un tono perentorio che strideva notevolmente con il suo aspetto giovanile ed innocuo. Gli altri due ragazzi restavano a guardare senza proferire parola. Fu solo Roberta ad aggiungere qualcosa.

“Stai attento anche negli acquisti, qui tutti dispongono di pochissimo denaro, anche acquisti esagerati potrebbero destare sospetti, devi pensare di essere quasi autosufficiente con il poco che hai ottenuto da noi. L’albergo dove troverai alloggio si trova in Piazza delle Medaglie. Buona fortuna”.

Fu così che ci salutammo e io uscì per strada. Il mio nuovo abbigliamento ricordava una brutta tuta da lavoro, di un beige slavato, e mi resi conto subito del perché sarebbe servita a passare inosservato per le strade. Tutti gli uomini che incontravo portavano la stessa identica tuta. Avevo provveduto a lasciare a casa orecchini, orologi, occhiali da sole eccessivamente moderni. Gli abitanti non usavano questi accessori ed era mio interesse passare il più possibile inosservato. Avevo anche accuratamente trascurato i capelli e la barba, in modo che il mio aspetto si discostasse il più possibile da quello che normalmente avevo, avvicinandosi a quello del maschio medio di questo Stato.

Mi incamminai così su una larga via, perfettamente pulita ma spettrale, sulla quale potei iniziare ad osservare le persone. La prima sensazione fu di camminare circondato da fantasmi. Persone diverse nelle fattezze ma identiche nei modi andavano dritte per la loro meta, con gli sguardi bassi e senza mai incrociare o salutare nessuno. Le donne utilizzavano una sorta di divisa, simile a quella di una cameriera. Indossavano tutte una camicia nera con il collo bianco, una gonna nera e un grembiule bianco in vita. Le loro espressioni non differivano da quelle dei loro compatrioti maschi. Imitai tutti gli altri, proseguendo sul lungo viale fiancheggiato di edifici brutalmente identici l’uno all’altro.

Sul fondo del viale comparve una piazza, era la mia meta. Trovai l’alberghetto, piccolo e poco appariscente. All’interno tutto era spartano, ben pulito e in ordine. Forse preventivamente avvisato del mio arrivo, l’albergatore mi chiamò per nome. “Gino? Salve, io sono Francis!” disse con tono amichevole ed un atteggiamento molto disponibile nei miei confronti. Fu una bella sensazione trovare un minimo di calore umano dopo una giornata tanto intensa. Francis era un ragazzo piccolo di statura ma allenato, fisicamente prestante. I pochi capelli che gli rimanevano erano tagliati corti, alla stessa lunghezza della barba. Tutto nella sua persona era gioviale e accogliente, nettamente diverso dal grigiore e dall’astio che avevo visto sino a quel momento. “Buonasera Francis, si sono io” risposi in tono asciutto. Mi consegnò le chiavi della mia stanza e restammo d’accordo di approfondire ogni discorso la mattina seguente. Salii le scale e arrivai alla stanza. Era piccola ma disponeva di una finestra che si affacciava sulla piazza, quello che avevo richiesto. Feci una doccia e mi infilai a letto, tra le lenzuola profumate.